venerdì 30 gennaio 2015

I giorni della Merla





La tradizione vuole che il 29-30-31 di Gennaio, gli ultimi tre giorni di questo primo mese dell’anno, vengano ricordati come i “giorni o dì della Merla”, ad indicare uno tra i periodi più freddi dell’inverno. Ma da dove trae origine questa credenza, entrata oramai a far parte della vita di tutti noi? 








Molte sono le versione che spiegano l’origine di questa leggenda, alcuni simili altre assi diverse, ma che vedono in tutte un unico protagonista: una Merla. 

La prima nasce in tempi assai lontani, quando Gennaio non aveva ancora 31 giorni ma solo 28. Si narra che Gennaio fosse particolarmente scherzoso e un po’ invidioso, in particolar modo con una Merla, molto ammirata per il suo grande becco giallo e per le penne bianchissime.  
Per questo Gennaio si divertiva a tormentarla; ogni volta infatti che ella usciva in cerca di cibo egli scatenava bufera di neve e vento. Stufa di tutto questo un giorno la Merla andò da Gennaio e gli chiese:” Amico mio potresti durare un po’ di meno?”. Ma Gennaio, orgoglioso come era rispose: “ E no, carissima proprio non posso. Il calendario è quello che è, e a me sono toccati 28 giorni.”
A questa risposta la Merla decise di farsi furba e l’anno seguente fece una bella scorta di cibo che infilò nel suo nido così che rimase per tutti i 28 giorni al riparo senza bisogno di uscire. Trascorsi i 28 giorni, la Merla uscì e cominciò a prendere in giro Gennaio: “Eh caro mio, quest’anno sono stata proprio bene, sempre al calduccio, e tu non hai potuto farmi congelare il becco nemmeno un giorno.” Detto ciò Gennaio se la prese così tanto che andò dal fratello Febbraio, che vantava ben 31 giorni, e gli chiese in prestito 3 giorni. 
Il fratello dubbioso domando: “ Cosa vuoi farne? “ e Gennaio rispose: “Ho da vendicarmi di una Merla impertinente. Stai a vedere”.  
E così Gennaio tornò sulla terra e scatenò una tremenda bufera di neve che durò per tutti i 3 giorni. La povera Merla, che era andata in giro a far provviste, per il forte vento non riuscì nemmeno a tornare al suo nido. Trovato il comignolo di un camino, vi si rifugiò in cerca di un po’ di tepore. Trascorsi quei freddissimi 3 giorni uscì dal comignolo sana e salva ma le sue candide penne erano diventate tutte nere a causa del fumo e della fuliggine. Da allora Gennaio ha sempre 31 giorni e i merli hanno sempre le piume nere. 








La seconda versione, ambientata nel capoluogo lombardo, ha come protagonisti un merlo, una merla e i loro tre figlioletti. Erano venuti in città sul finire dell'estate e avevano sistemato il loro rifugio su un alto albero nel cortile di un palazzo situato in Porta Nuova e poi per l'inverno sotto una gronda, al riparo dalla neve che in quell'anno era particolarmente abbondante. Il gelo rendeva difficile trovare le provvigioni così che il merlo volava da mattina a sera in cerca di cibo, che tuttavia scarseggiava sempre di più. Un giorno il merlo decise di volare ai confini di quella nevicata, per trovare un rifugio più mite per la sua famiglia. Intanto continuava a nevicare. La merla, per proteggere i figlioletti intirizziti dal freddo, spostò il nido su un tetto vicino, dove fumava un comignolo da cui proveniva un po’ di tepore. La tormenta tenne così lontano il merlo da casa per ben tre giorni (appunto gli ultimi tre di Gennaio). Quando tornò indietro, quasi non riconosceva più la consorte e i figlioletti erano diventati tutti neri per il fumo che emanava il camino. Nel primo dì di febbraio comparve finalmente un pallido sole e uscirono tutti dal nido invernale; anche il capofamiglia si era scurito a contatto con la fuliggine. Da allora i merli nacquero tutti neri; i merli bianchi diventarono un'eccezione di favola.





( Immagini dal web )

mercoledì 28 gennaio 2015

Passato




" Il Passato mi incuriosisce più del Futuro e non mi stancherò mai di ripetere
che il Futuro è un'ipotesi, una congettura, una supposizione, cioè non una realtà.
Tutt'al più una speranza alla quale tentiamo di dar corpo coi sogni e le fantasie.
Il Passato invece è una certezza, una realtà stabilita. Una scuola dalla quale non si prescinde perchè, se non si conosce il Passato non si capisce il Presente e non si può tentare
di influenzare il Futuro coi sogni e le fantasie.
E poi ogni oggetto sopravvissuto al Passato è prezioso perchè porta in sè un'illusione
d'eternità. Perchè rappresenta una vittoria sul Tempo che logora, appassisce ed uccide,
una sconfitta della Morte. "

( Oriana Fallaci, La Rabbia e l'Orgoglio )

lunedì 26 gennaio 2015

Fine settimana a Milano, dal Duomo non si sono mai viste così bene le Alpi




Durante il nostro fine settimana a Milano, nel mese di Dicembre, abbiamo avuto
la possibilità di visitare la meravigliosa mostra dedicata a Segantini.
Come sapete amo l'arte e amo visitare tutte le mostre che mi è possibile e questa volta ne siamo
usciti veramente soddisfatti,  ci è stata offerta un'interessante esposizione e finalmente la scelta 
è caduta su un nome che non è uno dei soliti noti.




Pascoli di primavera




A Segantini, considerato " il pittore milanese " è difficile dare un passaporto.
Nacque ad Arco, oggi provincia di Trento, ma allora, 1858, ancora parte del Tirolo.
Potrebbe essere austriaco, però la sua lingua madre è stata l'italiano e già da piccolo
Giovanni venne mandato a Milano, dove la sua vita si fece subito difficile.




Petalo di rosa



Frequentò Brera, è vero,ma finì anche in riformatorio, al Marchiondi, dove poi 
tornerà come insegnante di disegno.




Mezzogiorno sulle Alpi



Una vita da vero scapigliato, un'esistenza realmente On the road come i viziatelli hipster di oggi
si limitano a sognare, stravaccati nei bar, simili a Segantini solo per il barbone che il pittore
sfoggia in uno dei suoi ultimi autoritratti.




Raffigurazione della Primavera




Una vita brevissima, poco più di 40 anni, visto che morirà nel 1899, per un attacco
di peritonite proprio mentre  sta dipingendo.




Ritorno dal bosco




Quattro decenni e tre nazionalità. Ad un certo punto, dopo aver abbandonato Milano
per la Brianza, abbandonerà anche questa terra, che forse doveva sembrargli ancora troppo ordinata,
per trasferirsi nel cantone Grigioni, in Svizzera, sui monti impervi.




Riposo all'ombra



Il problema della cittadinanza di Segantini si risolve facilmente, rispondendo a questa domanda:
a quale stato appartiene uno qualsiasi dei monti che nelle giornate di fohn compaiono in fondo
alle strade cittadine?




Le due madri



A nessuno, sono monti e basta, al massimo fanno parte delle Alpi.
Allo stesso modo Segantini apparteneva allo Stato Inesistente Alpino.




A messa prima



Segantini anticittadino, più che le persone amava dipingere i monti.
E quando raffigurava gli umani li metteva in relazione alle montagne.




La raccolta delle patate



Opere come Mezzogiorno sulle Alpi, scelto come immagine di questa mostra o Dopo il temporale
sono raffigurazioni della luce.




Dopo il Temporale



I suoi monti perdono opacità e diventano prismi che rifrangono quella luce,
come in una scienza impossibile. Anche se, come tutti i divisionisti, anche Segantini
inserisce un'importante componente scientifica nella sua pittura.




Alla stanga



In tutto questo la figura umana, quando non è usata con intenti simbolisti, come avviene nell'ultima
fase, è incidentale, quasi fastidiosa.




Millet -Angelus




Nell'Angelus di Millet ( foto sopra )  i due contadini sono il centro del quadro.
Nell'Ave Maria a Trasbordo di Segantini ( foto sotto ) la presenza della donna che prega è meno
importante di un filo d'erba.




Ave Maria a trasbordo




Allo stesso modo saranno sembrati fastidiosi i passanti che interrompevano quella
solitudine che l'artista era andato a cercare nella capanna sullo Schafberg.




Il naviglio a Ponte San Marco




Anche quando aveva dipinto la città Segantini era stato grande. Un suo quadro
 Il naviglio a Ponte San Marco, è coronato da un cielo blu intenso, così diverso dalle fumosità della 
Turner in cui tanti piccoli dilettanti meneghine hanno avvolto e continuano ad impacchettare i Navigli.








Un cielo così felice che verrebbe voglia di fare delle cartoline di questo dipinto e mandarle a
tutti i soliti convinti che Milano sia solamente una città grigia e piovosa.




Costume cantone Grigioni




Prima di farne dei simboli, Segantini dipinse le figure umane più semplici. Pastori tirolesi, zampognari briantei,
lavoratori.Anche qualche gran dama è passata sulle sue tele, ma sono signore lombarde, 
molto dignitose, sobrie.




Ritratto della Signora Torelli




Davvero Segantini è l'anti Boldini, non c'è una sola concessione alla mondanità,
al lusso all'apparenza.




L'amore alla fonte della vita




Tutto torna nell'opera omnia di Segantini!




l'Angelo della Vita

( Immagini dal web )




















































venerdì 23 gennaio 2015

Medea





Medea è una figura della mitologia greca. Figlia di Eeta, re della Colchide, e di Idia. Era inoltre nipote di Elio (secondo altre fonti di Apollo) e della maga Circe, e come quest'ultima era dotata di poteri magici. È uno dei personaggi più celebri e controversi della mitologia greca. Il suo nome in greco significa "astuzie, scaltrezze", infatti la tradizione la descrive come una maga dotata di poteri addirittura divini.
Quando Giasone arriva in Colchide insieme agli Argonauti alla ricerca del Vello d'oro, lei se ne innamora perdutamente. E pur di aiutarlo a raggiungere il suo scopo giunge a uccidere il fratello Absirto, spargendone i poveri resti dietro di sé dopo essersi imbarcata sulla nave Argo insieme a Giasone, divenuto suo sposo. Il padre, trovandosi costretto a raccogliere le membra del figlio, non riesce a raggiungere la spedizione, e gli Argonauti tornano a Corinto con il Vello d'Oro.
Dopo dieci anni, però, Creonte, re della città, vuole dare sua figlia Glauce in sposa a Giasone, dando così a quest'ultimo la possibilità di successione al trono. Giasone accetta, abbandonando così sua moglie Medea. Vista l'indifferenza di Giasone di fronte alla disperazione della donna, Medea medita una tremenda vendetta. Fingendosi rassegnata, manda in dono un mantello alla giovane Glauce, la quale, non sapendo che il dono è pieno di veleno, lo indossa per poi morirne fra dolori strazianti. Il padre Creonte, corso in aiuto, tocca anch'egli il mantello e muore.
Ma la vendetta di Medea non finisce qui. Secondo la tragedia di Euripide, per assicurarsi che Giasone non abbia discendenza, uccide i figli avuti con lui e ne divora le carni: il dolore per la perdita porta Giasone al suicidio. La maggior parte degli storici greci del tempo di Euripide, tuttavia ricorda che i figli di Medea, che ella non riuscì a portare con sé, furono uccisi dagli abitanti di Corinto per vendetta.
Fuggita ad Atene a bordo del carro del Sole, Medea sposa Egeo, dal quale ha un figlio: Medo. A lui Medea vuole lasciare il trono di Atene, finché Teseo non giunge in città. Egeo ignora che Teseo sia suo figlio, e Medea, che vede ostacolati i suoi piani per Medo, suggerisce al marito di uccidere il nuovo venuto durante un banchetto. Ma all'ultimo istante Egeo riconosce suo figlio, e Medea è costretta a fuggire di nuovo. Torna nella Colchide, dove si ricongiunge e si riappacifica con il padre Eeta.







La Medea di Ovidio

Ovidio tratta del mito di Medea in due distinte opere: le Heroides e le Metamorfosi. Nel primo testo è la donna a parlare cercando di commuovere il marito, ma il racconto si interrompe prima del compimento della tragedia e il suo completamento è possibile al lettore solo attraverso la memoria letteraria. La Medea delle Metamorfosi è ben diversa: essa oscilla tra ratio e furor, mens e cupido, riprendendo, almeno in parte, la giovane tormentata dai rimorsi di Apollonio Rodio, divisa tra il padre e Giasone. Medea si dilania tra incertezza, paura, commozione e compassione.
La metamorfosi avviene in modo repentino ed è possibile rintracciarla attraverso il confronto tra la scena dell'incontro con Giasone nel bosco sacro e il ringiovanimento del padre dell'amato:se nel primo caso appare come un medico antico, nel secondo utilizza esplicitamente la parola "arte" (vv.171-179) mostrandosi come una vera strega.
Anche Ovidio riprende la scena del carro, presente già in Seneca ed Euripide, ma se in questi due casi l'episodio è inserito alla fine del racconto, Ovidio lo colloca a metà della narrazione: in tal modo Medea perde le sue qualità umane e il mondo reale cede il posto a quello fantastico. All'inizio delle Metamorfosi, Medea è la protagonista assoluta, ma pian piano cessa di essere un'eroina in cui il lettore può identificarsi e diviene un personaggio che appare e sparisce come per magia. La tragicità del finale non è sfruttata al massimo: infatti Medea è divenuta una vera strega e quindi non soffre dell'infanticidio commesso né potrebbe soffrire di un'ipotetica punizione.








La Medea di Draconzio

Nella parte introduttiva Draconzio (Blossius Aemilius Dracontius, poeta e oratore cristiano della tarda latinità del sec. V) afferma di voler fondere tutti i motivi tipici del mito di Medea; lo fa invocando la Musa Melpomene e la Musa Calliope. Medea e Giasone appaiono tutti mossi dal destino e dalla volontà degli dei, legati come sono agli scontri tra Venere e Diana. Infatti la dea della caccia sentendosi tradita per il matrimonio della sua sacerdotessa scaglia una maledizione contro di lei, da cui si snoderà la morte del marito e dei figli. All'inizio Medea è descritta come una "virgo cruenta" , ma viene definita maga solo a verso 343. Caratteristica di questo racconto è che è la donna a rubare il vello d'oro donandolo poi a Giasone, che appare per tutta la narrazione una figura passiva. Anche quando entra in scena Glauce l'eroe è semplice oggetto del desiderio, che la giovane otterrà anche a costo di rompere il legame matrimoniale che lo vincola. Entrambe le donne trasgrediscono così le norme morali:da un lato Medea tradisce la dea Diana, dall'altro Glauce porta al tradimento Giasone. Durante le nozze l'attenzione si concentra sulla coppia mentre Medea prepara la vendetta:sarà lei a donare a Glauce la corona da cui prenderà fuoco l'intero palazzo. Ma il punto culminante della tragedia è il sacrificio che Medea offre a Diana: :i suoi figli, così che l'infanticidio non è più condotto per vendetta, ma come richiesta di perdono. Nella scena finale l'autore riprende l'episodio del carro, ma questa volta il volo della donna ha valore semantico e non narrativo: Medea si riunisce a Diana e ritorna la virgo cruenta dell'inizio della narrazione, lasciando a terra tutto ciò che era ancora legato a Giasone.






Medea di Euripide


Medea è il titolo di una tragedia greca messa in scena da Euripide nel 431 aC. La tetralogia tragica di cui faceva parte comprendeva anche le perdute Filottete e Ditti, oltre che il dramma satiresco I mietitori. Le fonti raccontano che Euripide si classificò solo terzo all'agone tragico delle Grandi Dionisie, dietro Sofocle, vincitore, ed Euforione, figlio di Eschilo.

La trama
La scena si svolge a Corinto, dove Medea, suo marito Giasone e i loro due figli vivono tranquillamente. La donna ha aiutato il marito nell'impresa del Vello d'oro, abbandonando così il proprio padre, Eeta. Dopo dieci anni, però, Creonte, re della città, vuole dare sua figlia Glauce in sposa a Giasone, dando così a quest'ultimo la possibilità di successione al trono. Giasone accetta, abbandonando così sua moglie Medea.
Malgrado la disperazione della donna, vista l'indifferenza di Giasone, Medea medita una tremenda vendetta. Fingendosi rassegnata, manda in dono un mantello alla giovane Glauce, la quale, non sapendo che il dono è pieno di veleno, lo indossa per poi morirne fra dolori strazianti. Il padre Creonte, corso in aiuto, tocca anch'egli il mantello, morendo. Ma la vendetta di Medea non finisce qui. Per assicurarsi che Giasone non abbia discendenza, uccide i figli avuti con lui condannandolo all'infelicità perpetua.

L'opera
Gli studiosi concordano nel negare all'opera una derivazione dall'omonima tragedia di Neofrone, riconoscendo a Euripide (ca. 480-406 aC) tutto il merito delle parti innovative del personaggio, che trova le sue origini nelle Argonautiche scritte da Apollonio Rodio (sec III aC), dove viene raccontata l'epopea del Vello d'oro.
L'opera ha molte sfaccettature e svariate interpretazioni, ma di sicuro è l'affermazione della dignità della donna, concetto che stava prendendo forma nell'Atene dell'epoca. Medea è vittima della "paura dell'estraneo", straniera in terra straniera viene vista come un pericolo e, per vendetta, alla fine lo diventa.
La tragedia ha una spiccata presenza umana, lasciando da parte gli dèi, i quali sembrano rimanere muti alle tragiche vicende che vedono svolgersi. Giasone infatti a loro si rivolge, accusandoli di non aver impedito la triste sorte dei suoi figli, ma non riceve risposta.
Per la prima volta nel teatro greco (almeno quello che è arrivato sino a noi) protagonista è la passione di una donna, una passione violenta e feroce che rende Medea una donna debole e forte allo stesso tempo. Forte perché è padrona della sua vita e non si piega davanti a nessuno, ma anche debole perché questo l'ha resa sola, e dietro di sé ha distrutto tutto quello che rappresentava il suo passato. Medea ha un fortissimo orgoglio, che le impedisce di chiedere aiuto o di sottomettersi, tanto da arrivare a superare il senso di maternità: preferisce vedere i suoi nemici morti piuttosto che i suoi figli vivi.









Personaggi


La Medea di Euripide costituisce uno dei personaggi più celebri del mondo classico, per forza drammatica, complessità ed espressività. Tutte le altre figure si muovono attorno a lei, che domina la scena. Se, di solito, la tragedia classica presenta due personaggi in conflitto (per esempio Creonte e Antigone, oppure Oreste e Clitemnestra), ciascuno portatore di un ben preciso ordine di vedute, Medea contiene, dentro di sé, quasi due figure contrastanti: una vorrebbe uccidere i figli, l’altra li vorrebbe risparmiare. La sua è una mente scissa, conflittuale, quasi che Euripide conoscesse la moderna psicologia.
Giasone, al contrario, è quasi sminuito nella tragedia, tanto da ottenere la fama di seduttore che spingerà Dante a collocarlo nell’Inferno. Sembra che per lui l’amore rappresenti soltanto un mezzo per la conquista di qualcosa; come eroe perde tanto in prestigio da scadere al rango di uomo egoista e meschino, che crede di riuscire a giustificare il proprio operato solo per mezzo della sua capacità oratoria. Certo il suo destino sarà molto peggiore di quello della moglie: perde il trono, una compagna e i figli, mentre Medea riuscirà a sposare Egeo e a tornare, da regina, nella sua Colchide.
I personaggi della nutrice e del pedagogo hanno l’importante ruolo di commentare i fatti e ricavarne la morale. È curioso che figure di importanza fondamentale per la trama, quali i figli della coppia e Glauce, siano continuamente presenti (o nei discorsi dei personaggi o persino sulla scena), senza però mai esprimersi direttamente. Euripide intende avvolgerli di un’atmosfera tragica, come per mostrare al pubblico il terribile destino cui vanno incontro.
La divinità ha un ruolo solo marginale nell’opera, e la si incontra solo nelle invocazioni dei personaggi, ma non interviene mai, come in altri casi nelle tragedie euripidee.




 Klagmann




Medea di Seneca


Medea è una tragedia di cui è autore Lucio Anneo Seneca. Fu rappresentata fra il 61 ed il 62 dC. L'opera si ispira alla Medea di Euripide e mostra anche l'influenza dell'omonima tragedia perduta di Ovidio. La tragedia presenta l'innovazione tecnica dell'uccisione dei figli da parte della protagonista sulla scena e davanti agli occhi degli spettatori, contrariamente a quanto si usava nel dramma antico, in cui i fatti luttuosi, anziché essere rappresentati, venivano narrati da un nunzio.




George Romney



Variazioni sul mito


Nel corso dei secoli ci sono stati molti autori che si sono cimentati con il dramma di Euripide, creandone versioni diverse, a seconda del momento culturale in cui sono state scritte. Nella letteratura latina furono scritte molte opere su questo argomento, ma solo una è giunta intera ai nostri giorni, la Medea di Seneca.
Anche Ovidio, fra il 12  e l'8 aC, ne scrive una sua versione, andata però perduta: si dice che abbia avuto molto successo. Interessante notare che anche Valerio Flacco, autore latino lodato da Quintiliano, nella sua opera "Argonautica" (incompiuta) si cimenterà con il personaggio di Medea che però risente di influssi senecani e virgiliani ispirandosi anche alla figure di Didone.
Alcuni frammenti delle tragedie di Ennio riguardano una Medea. Tocca poi a Franz Grillparzer, nel 1821, darne un'altra interpretazione, che pone l'accento più sul fato e le circostanze avverse che spingono la donna ad agire, mentre nel 1949 Corrado Alvaro, nella sua Lunga notte di Medea, pone l'accento sul fatto che Medea è un'estranea in una comunità chiusa, e quindi si sente aggredita e discriminata. Tra le opere scritte recentemente, si ricorda la Medea del 1946 di Jean Anouilh.





Medea Frederick Sandys


( Immagini dal web )
















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mercoledì 21 gennaio 2015

La pazienza dell'Imperatrice all'ombra del divino Antinoo





L'Imperatrice Pompea Plotina nel 117 d.C. rimase vedova di Marco Ulpio Traiano, morto a Selinunte in Cilicia a 64 anni. Non avendo figli Traiano Traiano aveva adottato da tempo un suo lontano nipote,
Publio Elio Adriano, e lo aveva nominato suo successore




Pompea Plotina




Nel 100 Adriano aveva sposato Vibia Sabina, presumibilmente nata nell'86 a Trebula Suffenate
( oggi Rocca Sinibalda, in provincia di Rieti ), pronipote di Traiano, figlia di una nipote di primo grado
dello stesso Traiano, Salomina Matidia, e del console Lucio Vibio Sabino.




Vibia Sabina




Matidia, anche da semplice nipote, era stata una donna intrigante e figuratevi cosa avrebbe potuto inventarsi ora che era diventata addirittura suocera dell'imperatore. Ma aveva fatto male i suoi calcoli, non pensando a una donna rassegnata ma molto determinata, cioè sua figlia Vibia. Come potete immaginare infatti, la ragazzina a 14 anni aveva sposato un uomo che la rispettava ma che non l'amò mai, aveva sopportato i molti amici del marito, aveva seguito da lontano gli intrighi materni e della zia Plotina non permettendosi mai di intervenire, ma ora che era diventata imperatrice, intendeva far valere il suo potere su ogni cosa, specie mamma e zia.




Salomina Matidia




Tra il 119 e il 134 Adriano prese a viaggiare molto per consolidare l'impero attraverso una illuminata politica di pace. Vibia sopportò anche l'imbarazzante sbandata del marito per il giovane, arrogante, bellissimo Antinoo e quando questi morì improvvisamente annegando nel Nilo, accettò con rassegnata pazienza che il bellimbusto fosse divinizzato. Intanto però prima e dopo Antinoo, Vibia aveva preso a seguire il marito nei suoi viaggi, soprattutto dopo i decessi di Plotina ( nel 121 ) e della madre ( nel 126 ).




Antinoo



L'Imperatore cominciò ad apprezzare Vibia per il ruolo che si era ritagliata ( oggi ne potremmo parlare tranquillamente come di una sorta di  first lady ), incontrando il favore delle popolazioni, l'affetto dei soldati e la considerazione delle persone preposte ai delicati ruoli di rappresentanti del governo centrale di Roma.




Adriano




Nel 131, avvenne però il primo effettivo screzio screzio istituzionale tra i due, quando cioè Adriano scelse il generale Lucio Ceionio Commodo quale suo successore. Al riguardo, Vibia disse chiaramente al marito come Ceionio fosse privo di qualunque attitudine, scarso nelle strategie militari e per questo inviso ai soldati, tutto forse anche a causa della salute cagionevole ( morirà lo stesso anno dell'Imperatore ). Passata la prima rabbia, Adriano prese a riflettere circa i giudizi così poco lusinghieri di Vibia verso il suo prescelto e iniziò una serie di controprove per smentire l'augusta consorte ovvero per avvalorarne l'intuito. Dopo un lungo periodo di alti e bassi, scenate clamorose, ripensamenti ed esaltazioni, Adriano convenne che la moglie aveva ragione.




Salomina Matidia




Adottò allora Antonino Pio, futuro suocero di Marco Aurelio, nato a Lanuvio da una famiglia facoltosa di rango senatorio, originaria di Nemaunus ( l'odierna Nimes francese ), persona di grande rettitudine morale che era giunto giovanissimo ai più alti gradi della carriera pubblica. Come gli avvenimenti dimostreranno, la scelta fu molto azzeccata. Vibia morì nel 137, un anno prima di Adriano, e non trova riscontro l'idea di un avvelenamento ordito dal marito, oramai ultrasessantenne e visibilmente provato.




Adriano e Vibia




( Sergio De Benedetti, Libero del 8 gennaio 2015 )
( Immagini dal web )










venerdì 16 gennaio 2015

Il Piccolo Principe, la favola dolce e triste che insegna ad amare





Saint - Expery scrisse il Piccolo Principe mentre era in esilio negli Stati Uniti, sollecitato dal suo editore
newyorchese, Reynald & Hitchcock, per il quale aveva già dato alle stampe Pilota di guerra  e 
Lettera a un ostaggio.










Era partito per l'America nel dicembre 1940, in fuga dalla Francia occupata dai nazisti e con lo scopo
di esercitare pressione sul governo americano affinchè entrasse in guerra contro Hitler.
Ma era un irregolare, Sain Exupery, e il suo soggiorno americano non fu quello dell'esemplare rifugiato
e propagandista: viveva con la moglie in doppio attico su Central Park e avrebbe intrecciato una relazione
con la moglie di un altro celebre aviatore Charles Linderbergh.









Il Piccolo Principe uscì a New York in francese e in inglese nel 1943, qualche mese prima che
il suo autore lasciasse gli Usa per tornare a volare con la resistenza francese il Algeria, e un anno prima dell'ultimo volo in una missione di ricognizione sul suo caccia modificato P - 38 Lightning.
Era un libro molto diverso dai due precedenti che parlavano di missioni di guerra, della Francia, sbaragliata e umiliata. Era al contrario un'autobiografia mascherata, e originava da un episodio che risaliva alla
prima giovinezza dell'autore.









Aveva diciassette anni Saint - Exupery, quando il fratello minore, Francoise,  " dai capelli d'oro " proprio come il Piccolo Principe, morì di febbre reumatica mentre Antoine lo assisteva al capezzale, lasciandolo, unico maschio della famiglia, con la madre e le tre sorelle.









Il progetto di questo libro dall'apparenza di " racconto di fate " accompagnò Sain - Exupery per molti anni e, forse, proprio per il contenuto dolorosamente privato, l'autore non avrebbe mai rotto gli indugi, senza le insistenti richieste del suo editore.
Alla morte del fratello minore si unisce il ricordo di uno degli innumerevoli incidenti di volo di cui
Saint -  Exupery portava le tracce sul corpo ( negli ultimi anni non riusciva nemmeno più a voltarsi  per controllare il sopraggiungere di apparecchi nemici ). Quando nel dicembre 1935 era piombato, insieme al suo meccanico e navigatore Andrè Prevot, nel deserto del Sahara, nella zona prossima al delta del Nilo.
Erano stati salvati dalla disidratazione da un beduino e nel frattempo avevano avuto modo di avere molte, suggestive allucinazioni.









E così, con l'aereo di Antoine in avaria, la caduta nel deserto e tante fantasmagoriche visioni nacque anche il
Piccolo Principe. Anche Piccolo è finito sul luogo dell'incidente, ma proviene da molto più lontano, da un asteroide che ha il poco poetico ( ma non così poco dopotutto:  Saint - Exupery, che era una specie di autodidatta in stile rinascimentale,amava la matematica )nome di B612.









Quando il disperso Antoine e Piccolo si incontrano Piccola avanza subito una prima, capricciosa richiesta:
che Antoine gli disegni una pecora. Antoine lo fa, ma Piccolo non è per niente soddisfatto, sembra malaticcia, che stia morendo. Con questo riferimento il lettore comincia a fare conoscenza con uno dei motivi conduttori di questo " Racconto di fate " che, come tutte le fiabe eterne ed universali racconta il confronto con la perdita e la morte.









Piccolo infatti  ha conosciuto il sentimento più alto e doloroso che possa conoscere un fanciullo della sua età: la tristezza: "è quando si è molto tristi che si amano i tramonti ", dice, lui che i tramonti li ama moltissimo, tanto da averne visti ben 43 di fila! Ma Piccolo è triste non perchè Antoine non riesca a disegnare una pecora che non sembri malata ma perchè sa di aver commesso, a suo modo,  un peccato, di essersi macchiato di una colpa.










Sul suo asteroide ha abbandonato il suo fiore prediletto e un po' petulante, la sua rosa. La rosa gli richiedeva ogni giorno "  la colazione " cioè di essere annaffiata e dopo un po' Piccolo si è scocciato di preparargliela.
Voleva, mosso dalla curiosità, girare l'Universo, anche se la sua rosa gli aveva detto che era l'unica rosa.
E quando il suo geografo gli dice che " La Terra ha una buona reputazione " ( mentendo per la gola ) Piccolo ci vola unendosi al volo degli uccelli migratori. L'impazienza lo porterà
a scoprire che la sua rosa gli avrebbe mentito giacche sulla Terra, vedi la buona reputazione, ci sono miliardi di rose









E però non gli aveva mentito: perchè quelle rose non sono la sua rosa. Perchè, come gli insegna la volpe,
quando chiede a Piccolo di essere addomesticata,, quella rosa è stata addomesticata anch'essa, cioè,
con essa Piccolo " ha creato  un legame ".












Non conta il profumo, il colore, nemmeno la freschezza o la cagionevolezza di una rosa, conta il legame che con essa si è stabilito, e che rende Piccolo e il fiore unici l'uno per l'altro.





( Immagini dal web )


Piemontesità

Piemontesità
" ...ma i veri viaggiatori partono per partire, s'allontanano come palloni, al loro destino mai cercano di sfuggire, e, senza sapere perchè, sempre dicono: Andiamo!..." ( C.Boudelaire da " Il viaggio")